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La pandemia fa crollare le barriere dell’omnicanalità

La ricerca NielsenIQ, condotta in occasione dell’Osservatorio Multicanalità 2020, evidenzia come in 13 anni, dal 2007 al 2020, sono sempre di più i consumatori italiani che esprimano un atteggiamento favorevole ai contesti digitali. Il connubio tra mondo digitale e mondo fisico è infatti ormai un fenomeno di massa, e le barriere dell’omnicanalità sono definitivamente crollate, grazie anche all’accelerazione causata dalla pandemia. Insomma, ciò che prima costituiva una barriera all’adozione di strumenti digitali, oggi lo è sempre di meno. Lo testimonia la penetrazione di internet: oggi, l’88% degli italiani si connette alla rete. Non tutti i consumatori, però, adottano gli stessi comportamenti in un contesto omnicanale.

Diversi comportamenti in base alle categorie merceologiche di acquisto

Per comprendere i trend e quali decisioni strategiche adottare, NielsenIQ ha segmentato la popolazione italiana in base al comportamento in ambito digitale, ottenendo 5 cluster, dai meno ai più digital: Digital Unplugged, Digital Rookie, Digital Bouncer, Digital Engaged e Digital Native. Considerato l’approccio omnicanale eterogeneo dei consumatori è quindi fondamentale comprendere le differenze di comportamento in base alle categorie merceologiche di acquisto. La stessa persona, infatti, può avere un profilo digitalmente ‘base’ per il Largo Consumo, ma evoluto per la categoria dei viaggi. Ciò dipende da numerosi fattori, tra i quali la propensione al digitale, il vissuto della categoria e il livello di maturità dell’offerta, che deve adeguarsi alle nuove esigenze dei consumatori se vuole cogliere tutte le opportunità di crescita. 

Il ‘contagio digitale’ spinge la multicanalità

Guardando ai dati, in Italia nel Largo Consumo i cluster che vivono appieno o frequentemente l’omnicanalità sono sottorappresentati rispetto alla media (41% vs 50%), mentre in settori come le ITC o i Travel sono tra il 60 e il 70%.   Ma cosa succederebbe se i settori con pratiche digitali più diffuse riuscissero a far beneficiare quelli meno sviluppati nel contesto omnichannel? Prendendo a prestito la terminologia dell’attuale situazione sanitaria, l’effetto ‘spillover’ sarebbe la misura di quanto la diffusione di pratiche digitali su determinate industry potrebbe influenzare le aspettative e le abitudini nelle restanti categorie. In altre parole, sarebbe una sorta di ‘contagio digitale’. 

Mettere il consumatore in condizione di preferire un approccio omnicanale

Se il contesto italiano guarda spesso a Cina, Stati Uniti o Francia per cercare di capire quali trend potrebbero manifestarsi nell’immediato futuro, anche il settore del Largo Consumo dovrebbero guardare alle industry che già riescono a sfruttare l’omnicanalità in maniera ottimale. Questo, per migliorare velocemente la propria offerta, rispondendo alle esigenze dei consumatori. È proprio questo il punto sul quale manufacturer e retailer dovrebbero concentrarsi per ripensare e riadattare le loro strategie: se un individuo si comporta da Digital Engaged o Digital Native in alcune categorie di determinate industry, ciò significa che potrebbe essere pronto a farlo anche nel largo consumo, nel Pharma o nel Beauty. Ed è più probabile che lo faccia se l’offerta sarà in grado di rispondere alle sue esigenze, mettendolo in condizione di preferire un approccio omnicanale a quello puramente fisico.

Specialità regionali protagoniste nel carrello della spesa, +6,4% di fatturato

Nel corso del 2020 supermercati e ipermercati segnalano oltre 9.200 prodotti food & beverage con l’origine di provenienza riportata in etichetta, e con un giro d’affari da 2,6 miliardi di euro, +6,4% annuo, le specialità regionali diventano protagoniste nel carrello della spesa degli italiani.  Lo rileva la nona edizione dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, che traccia una vera e propria mappa del regionalismo in tavola. Al primo posto per valore delle vendite si piazza il Trentino-Alto Adige (+7%), al secondo la Sicilia (+5,1%) e al terzo il Piemonte (+3,7%), la regione con il maggior numero di prodotti (1.152 referenze). L’Osservatorio disegna anche la geografia delle vendite dei panieri regionali all’interno del territorio nazionale, per individuare dove sono più apprezzati, riferisce Ansa.

Il sovranismo alimentare regna in Sardegna, Trentino e Friuli

Il sovranismo alimentare regna in Sardegna, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, mentre in Lombardia, Emilia-Romagna, Campania, Molise e Calabria i prodotti del territorio locale restano preponderanti e sviluppano più vendite rispetto alla media nazionale.Ma ci sono anche regioni dove i prodotti locali non sono ai primi posti per incidenza sugli acquisti, come accade in Valle d’Aosta e Basilicata. Nel resto del paese il carrello della spesa è più interregionale. Ad esempio, in Liguria il consumo dei prodotti piemontesi è superiore del 69% alla media italiana e quello dei prodotti campani lo è del 12%, mentre in Piemonte l’indice di allocazione dei consumi è maggiore per i prodotti liguri e per quelli pugliesi.

Il Trentino-Alto Adige conferma la sua leadership

Ancora una volta il primo posto, per valore delle vendite, spetta al Trentino-Alto Adige, grazie a un ampio paniere di prodotti, in particolare vini e spumanti, speck, yogurt, mozzarelle e latte. Una leadership che nel 2020 si è ancor più consolidata, sostenuta in particolare dall’apporto positivo di speck e vini. Il secondo posto va alla Sicilia, il cui paniere di specialità regionali (tra cui spiccano il vino, i sughi pronti e le arance) ha visto aumentare le vendite soprattutto grazie all’apporto di birre, arance, sughi pronti, passate di pomodoro e bevande gassate.

L’exploit del Molise nel 2020

Al terzo posto per valore delle vendite si insedia il Piemonte, davanti a Sicilia e Toscana. Nel 2020 il paniere dei prodotti piemontesi, composto soprattutto da vini, formaggi freschi, carne, acqua minerale e latte, ha ottenuto un aumento delle vendite a cui ha contribuito soprattutto carne bovina, vini Docg, latte Uht, miele e mozzarelle. Confrontando l’andamento delle vendite realizzate nel 2020 con quelle dell’anno precedente, emerge che i panieri regionali più dinamici sono stati quelli di Puglia (+14,4%) e Calabria (+12,5%), seguiti da quelli di Veneto (+9,6%) Sardegna (+8,6%), Abruzzo (+8,5%) e Marche (+8,4%). Il fenomeno del 2020 è stato l’exploit del Molise, che continua a guadagnare spazio nel carrello della spesa degli italiani: l’anno scorso le vendite del paniere dei prodotti di questa regione sono cresciute del +24,8%, con la pasta di semola a fare da traino.

Italiani e auto, prezzo e consumi determinano la scelta

Si sa che gli italiani, fra le loro tante passioni, hanno anche quelle per le macchine. Se nei sogni molti vorrebbero una rombante quattroruote, nella realtà quali sono gli aspetti che guidano la scelta? A questa domanda ha risposto una recentissima indagine condotta da dagli istituti di ricerca mUp Research e Norstat per conto di Facile.it e MiaCar. In estrema sintesi, si scopre che il “motore” della scelta, per i nostri connazionali, si basa principalmente su due parametri: prezzo e consumi.

Attenti al prezzo

Disposti a spendere per l’auto preferita, ma entro i confini del budget prestabilito. L’indagine rivela che il prezzo d’acquisto è la principale discriminante. Quasi 1 automobilista su 2, infatti, ha detto di aver scelto l’auto in base al costo. Le donne si confermano maggiormente parsimoniose (51,4% contro 48,4% del campione maschile) insieme agli over 65 (56,4%), mentre risultano meno interessati i rispondenti nella fascia 45-54 anni (41,8%) e i giovani under 24 (44,4%). Il secondo criterio, anche in questo caso legato alle finanze, è rappresentato dai consumi di carburante: il 37,2% dei rispondenti ha dichiarato di aver cercato un’auto con consumi ridotti. Fanno più attenzione a questa caratteristica gli uomini (38,6% vs 35,6% del campione femminile) e gli under 24 (40,7%). A livello geografico, sono i residenti al Sud e nelle Isole gli italiani maggiormente attenti alla spesa legata ai consumi. 

Marca ed estetica

Al terzo e al quarto posto nella classifica delle priorità con cui si sceglie un’auto nuovo gli italiani mettono la marca e poi la “bellezza”. In base ai risultati della ricerca, il 32,7% ha comprato l’auto in base alla casa automobilistica, caratteristica che sembra interessare in modo particolare gli under 24, tra i quali la percentuale arriva addirittura al 40,7%. Invece l’estetica non è uno dei criteri sul podio, ma si piazza al quarto posto dato che 1 automobilista su 4 la ritiene importante; in questo caso sono più attenti all’aspetto del veicolo le donne (27,3%) e, ancora una volta, gli under 24 (37%).

Le donne le vogliono “mini”, gli uomini tech

Ancora, gli italiani tengono d’occhio pure i costi di gestione e di mantenimento quando devono scegliere un veicolo nuovo, tanto che il 18% del campione ha dichiarato di aver valutato con attenzione questo aspetto, con pari percentuali fra uomini e donne. Cambiano invece i gusti in base al genere: gli uomini sono più interessati alle dotazioni tecnologiche di sicurezza del veicolo (21% vs 15,3 del campione femminile) e alla potenza del motore (16,1% vs 9,2%), mentre le donne si orientano verso modelli dalle dimensioni ridotte, come le city car  (19,5% vs 11,1% del campione maschile).

I benefici del verde in città sulla salute e sul pianeta

I vantaggi degli spazi verdi e pubblici in città sono tanti, e favoriscono il benessere psico-fisico e la qualità della vita di chi vive nei grandi centri urbani. In occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, il 5 giugno, Greenpeace ha lanciato il rapporto Greening the Cities, che oltre a evidenziare i benefici del verde in città, mette in risalto la necessità per gli amministratori e le amministratrici delle città italiane di investire di più nelle aree verdi e pubbliche ad accesso equo per tutte e tutti i cittadini. Il rapporto di Greenpeace mira quindi a promuovere una vera transizione ecologica nelle città, indispensabile per affrontare la crisi climatica e sanitaria.  

Vivere green fa bene al corpo e alla mente

Dalla riduzione del rischio di numerose malattie croniche in età adulta, come diabete e condizioni cardiovascolari, obesità e asma, all’accelerazione del recupero dopo un intervento chirurgico, alla riduzione dei ricoveri ospedalieri e alla mortalità prematura fino a migliori esiti della gravidanza sono questi i benefici di una città più green per tutti. Lo studio menziona però anche di un miglioramento delle funzioni cognitive e della salute mentale, legato a miglioramenti nello sviluppo comportamentale, come difficoltà ridotte, sintomi emotivi e problemi di relazione tra pari.

Solo poche città soddisfano lo standard Oms sulla quantità di spazio verde pro capite

“Aumentare le aree verdi e pubbliche significa prendersi cura della salute di cittadine e cittadini e garantire un tessuto sociale sano e attivo – dichiara Chiara Campione, coordinatrice del progetto Hack Your City di Greenpeace -. Rendere più verde lo spazio pubblico aiuta a combattere la disuguaglianza, promuove l’inclusione della comunità e rende le città più sicure e più resilienti ai cambiamenti climatici in corso”.Sebbene la disponibilità e l’accessibilità di spazi verdi urbani nelle grandi città del mondo sia aumentata rispettivamente del 4,11% e del 7,1% negli ultimi 15 anni, solo una manciata di città ha soddisfatto pienamente lo standard dell’Oms sulla disponibilità che stabilisce un minimo di 9 metri quadri di spazi verdi per abitante, per non parlare del valore ideale di 50 m² pro capite. 

Un investimento per la salute pubblica e sociale

Anche nelle città che soddisfano alcuni di questi standard, riferisce Adnkronos, ciò non si traduce necessariamente in parità di accesso allo spazio verde per tutta la cittadinanza. Più della metà della popolazione mondiale, 4,2 miliardi di persone, vive nelle città. Questo numero è destinato ad aumentare al 70% entro il 2050. Le città sono i centri dell’attività economica, e rappresentano oltre il 70% delle emissioni globali di gas serra. Per l’organizzazione ambientalista gli spazi verdi devono essere considerati non solo un investimento per la salute pubblica e sociale, ma un’opportunità per riequilibrare il nostro rapporto con la natura, rallentare la crisi climatica e proteggerci da future pandemie.

Gli arredi luxury per valorizzare il tuo living

Il lusso è certamente una continua ricerca del bello e della qualità per quel che riguarda gli arredi. Sicuramente esso rappresenta un tipo di raffinatezza e ricercatezza che altri elementi di arredo non sono in grado di regalare.

Quello del lusso infatti non è esclusivamente da intendere come una necessità di mostrare agli altri sfarzo ed eccessi, ma soprattutto bellezza coniugata a praticità d’uso e materiali resistenti.

Qualità dei materiali e durata nel tempo

Dunque possiamo dire che un arredo di lusso non deve unicamente essere accattivante alla vista ma rispondere anche a determinate capacità di utilizzo e resistenza. Parliamo dunque di armonia delle forme, creatività e funzionalità che possono essere adoperate solo da artigiani veramente capaci e che trovano applicazione in arredi di ogni tipo, dunque destinati ad arricchire ogni ambiente di casa.

Puoi trovare alcuni esempi di arredo luxury sul sito di baudesign.it e scoprire In che modo puoi andare a valorizzare con creatività il tuo living, trasformandolo in un ambiente perfetto per ricevere gli amici o vivere dei piacevoli momenti di benessere in famiglia.

Qui puoi trovare inoltre complementi e idee per l’illuminazione della camera da letto, soluzioni in grado di conferire un aspetto decisamente più originale sin dal momento in cui vengono inseriti.

I complementi di Bau Design sono un inno alla bellezza e alla ricercatezza, in grado di rendere la tua casa un luogo molto più elegante ed in grado di richiamare gli stili più belli ed importanti esistenti.

 I suoi bravissimi artigiani si occupano infatti di realizzare ogni singolo pezzo di questi bellissimi elementi d’arredo mantenendo sempre alta la qualità dei prodotti e della lavorazione, così da fare in modo che ogni singolo pezzo sia destinato a durare nel tempo.

Quarto trimestre 2020, massiccio aumento di attacchi RDP

La pandemia ha inciso sul panorama della criminalità informatica: con il passaggio al lavoro da remoto si è creata una nuova superficie di attacco, che ha provocato un’ulteriore crescita delle minacce Remote Desktop Protocol (RDP). Tra il primo e il quarto trimestre 2020 i sistemi telemetrici di ESET hanno registrato infatti un aumento del 768% di tentativi di attacco RDP.

Il report di ESET evidenzia i dati più significativi ottenuti dai sistemi di rilevamento e i progressi nella ricerca sulla cybersecurity. Poiché si tratta della sintesi finale sulle minacce del 2020, il report contiene commenti sulle tendenze osservate e le relative previsioni.

Un grande rischio per il settore privato e per quello pubblico

“La difesa dagli attacchi RDP non deve essere sottovalutata, soprattutto a causa del ransomware comunemente diffuso attraverso exploit RDP, che con tattiche sempre più aggressive rappresenta un grande rischio sia per il settore privato sia per quello pubblico”, sottolinea Roman Kováč, cro ESET. Secondo l’esperto, però, man mano che la sicurezza del lavoro a distanza migliora, il boom degli exploit RDP dovrebbe rallentare, come rilevato nel corso del quarto trimestre 2020. Un altro trend riscontrato nel periodo è l’aumento delle minacce che colpiscono il traffico email a tema Covid-19, collegate alle campagne vaccinali di fine anno, che hanno offerto agli hacker l’opportunità di ampliare la gamma delle armi utilizzate. Una tendenza che proseguirà anche nel 2021.

Eliminato il 94% dei server TrickBot in una sola settimana

In primo piano nel report gli eventi dello scorso ottobre, quando ESET ha partecipato all’operazione globale per fermare TrickBot, una delle botnet più grandi e longeve. Questi sforzi congiunti hanno portato all’eliminazione del 94% dei server TrickBot in una sola settimana. “C’è stato un netto calo delle attività di TrickBot in seguito agli interventi di fine anno – aggiunge Jean-Ian Boutin, Head of Threat Research di ESET -. Monitoriamo costantemente la botnet TrickBot e il livello di attività a oggi è decisamente basso”.

Individuato un nuovo gruppo APT, XDSpy

Il report evidenzia come i ricercatori di ESET abbiano individuato un gruppo APT precedentemente sconosciuto, chiamato XDSpy, che ha preso di mira Balcani ed Europa Orientale, oltre a un notevole numero di attacchi alla supply chain, come quello di Lazarus in Corea del Sud o quello denominato Operazione StealthyTrident in Mongolia. O, ancora, l’Operazione SignSight rivolta contro le autorità di certificazione in Vietnam. Il report fornisce aggiornamenti anche sull’operazione In(ter)ception di Lazarus, sulla backdoor PipeMon del gruppo Winnti, e sulle modifiche ai tool utilizzati da InvisiMole.

Second Hand Economy, in Italia un business che vale 24 miliardi di euro (grazie all’ecommerce)

L’usato si sta rivelando un’autentica miniera d’oro: questo specifico settore, la cosiddetta second hand economy, nel 2019 ha prodotto nel nostro paese un valore di ben 24 miliardi di euro. Una cifra ragguardevole – pari a circa l’1,3% del Pil nazionale – movimentata soprattutto dagli scambi online. Ma ci sono altri elementi che evidenziano quanto questa tendenza sia in ascesa: negli ultimi 5 anni è stata registrata una crescita del 33%, trainata soprattutto dall’ecommerce, che l’anno scorso ha generato valore per 10,5 miliardi (circa il 45% del totale).

Perché piace l’usato

Sono diverse le motivazioni che spingono gli italiani a fare shopping di oggetti di seconda mano, spiega una ricerca condotta da BVA Doxa per Subito.it: in particolare, piacciono velocità, accessibilità, semplicità e convenienza nella compravendita online, insieme a una più generale attenzione alla sostenibilità, al riuso e al risparmio. Se le giovani famiglie (75%) e la Gen Z (69%) si rivolgono sempre più spesso al mercato dell’economia dell’usato, i Baby Boomers non sono da meno, con oltre 6 italiani su 10 nella fascia di età 55-64 anni che comprano e vendono oggetti di seconda mano. La richiesta di oggetti di seconda mano, poi, ha avuto un ulteriore rilancio dopo il periodo di emergenza sanitaria degli ultimi mesi: molti nostri connazionali hanno deciso di optare per comportamenti virtuosi, per un’economia circolare sempre più rilevante e capace di generare valore reale in modo sostenibile.

Cosa e perché si compra di seconda mano?

Rispetto a cosa gli italiani hanno comprato di più online nel 2019, la classifica è guidata dal settore Casa&Persona (73%), seguito da Sports&Hobby (63%), Elettronica (57%) Motori (42%), Arredamento e casalinghi (36%), Libri e riviste e Informatica (pari merito al 30%) e Abbigliamento e accessori (26%). Comprare e vendere usato si conferma al quarto posto tra i comportamenti sostenibili più diffusi tra gli italiani (49%), subito dopo la raccolta differenziata (95%), l’acquisto di lampadine a LED (77%) e di prodotti a chilometro zero (56%). In linea con quanto rilevato nel 2018, continua a crescere l’importanza che viene data all’aspetto valoriale nella decisione di puntare sull’economia dell’usato, perché porta vantaggi non solo a livello personale, ma anche all’ambiente e alla società. La second hand economy è quindi sempre più una scelta sostenibile (44%), intelligente e attuale (40%), ma anche un modo per dare valore alle cose (37%). E il fatto che sempre di più gli acquisti di seconda mano siano una scelta, e non una necessità, è confermato da un dato importante: nel 2019 cala la quota di chi acquista second hand per risparmiare (59%). Ancora, oltre 7 intervistati su 10 (71%) ritengono che la second hand economy sia destinata a crescere ancora nei prossimi cinque anni, diventando sempre più una scelta consapevole e green (48%), un ottimo strumento per risparmiare (47%) e per rendere i consumi accessibili a più persone (30%).

Covid-19, turismo e rimborsi: la scelta spetta all’organizzatore

Il decreto legislativo del 2 marzo 2020 prevede misure finalizzate a evitare di porre in difficoltà le imprese del Turismo che, a causa delle cessazione di ogni forma di viaggio per la crisi Covid-19, hanno azzerato la loro produzione. Allo stesso tempo, il Dl ha disposto anche misure relative al rimborso di titoli di viaggio e pacchetti turistici ai consumatori. All’art. 28, comma 5, il Dl stabilisce infatti che in caso di recesso, l’organizzatore può offrire al viaggiatore un pacchetto sostitutivo di qualità equivalente o superiore, e può procedere al rimborso, oppure può emettere un voucher da utilizzare entro un anno dalla sua emissione, di importo pari al rimborso spettante. Le associazioni del comparto del turismo organizzato, Astoi Confindustria viaggi, Aidit, Assoviaggi e Fto, fanno perciò chiarezza sull’utilizzo dei voucher, e la scelta di rimborsare o meno, spiegano, è solo in capo all’organizzatore

Il testo normativo non lascia adito a dubbio

Il tenore letterale del testo normativo, spiegano le Associazioni, non lascia adito a dubbio alcuno circa il fatto che la scelta in merito alle gestione delle conseguenze del recesso dal pacchetto turistico, con l’adozione di una tra le opzioni indicate, è rimessa esclusivamente all’organizzatore (tour operator o agenzia di viaggio) e non al viaggiatore. Questo, contrariamente a quanto affermato da alcune Associazioni di Consumatori, riporta Askanews. L’intento perseguito dal Legislatore italiano risponde infatti all’esigenza precisa e prioritaria di evitare di porre le aziende in default finanziario, consentendo loro di emettere un voucher di valore corrispondente alle somme versate dai viaggiatori in alternativa al rimborso del prezzo.

Si richiama l’attenzione sul valore di tutela dell’interesse generale

Pertanto, appare strumentale e fuorviante l’informazione che spetti al consumatore scegliere se usufruire del voucher ovvero ottenere il rimborso, o che la scelta operata dall’organizzatore sia soggetta a forme di accordo o di accettazione da parte del consumatore. A fugare ogni eventuale dubbio residuo, ammesso che di dubbi si voglia parlare poiché il dettato normativo non necessita di interpretazione stante la sua chiarezza, si richiama l’attenzione sul valore di tutela dell’interesse generale sotteso alle norme emanate in situazione di contingenza. Le misure sopra richiamate infatti assumono valore, come espressamente si legge nel decreto, di norme di applicazione necessaria.

Disposizioni straordinarie che prevalgono su tutte le altre norme

Le norme di applicazione necessaria sono disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un Paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale o economica. Al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile ai contratti.

Si tratta quindi di disposizioni straordinarie, emanate in situazioni di emergenza, come nel caso di specie, che prevalgono su tutte le altre norme, applicabili in situazioni di normalità. Ne discende che se valessero le disposizioni ordinarie, che prevedono la restituzione al viaggiatore delle somme versate, non ci sarebbe stata alcuna necessità di indicare le disposizioni dell’art.28 quali norme di applicazione necessaria.

Continua la crescita del valore aggiunto delle imprese italiane

Da quanto emerge dai dati di un report dell’Istat nel 2017, per il quarto anno consecutivo, continua a crescere il valore aggiunto delle imprese. In particolare nel 2017 l’aumento è del 3,9% sul 2016, arrivando a 779,468 milioni di euro. Alla crescita del valore aggiunto si associa una domanda di lavoro positiva, che ha generato circa 419 mila addetti aggiuntivi, di cui oltre il 60% nelle imprese appartenenti a gruppi, con incrementi in tutte le classi dimensionali, ma più intensi nelle imprese con 10 addetti e oltre. I costi del personale invece aumentano del 5,5% per le imprese appartenenti a gruppi e del 2,2% per le imprese indipendenti.

Margine operativo lordo +3,5%

Marcata la performance in termini di redditività, con il margine operativo lordo, che a seguito di una crescita del costo del lavoro (+4,2%) nel 2017 segna un aumento del 3,5%, un impatto significativo sulla crescita del sistema produttivo è determinato dalle imprese organizzate in gruppi, che generano il 56,7% del totale del valore aggiunto. Nelle imprese organizzate in gruppi l’aumento del valore aggiunto è del 5,8%, e quello del margine operativo lordo è del 6,2%, contro +1,4% e +0,7% registrato dalle imprese che non appartengono a gruppi.

Le imprese appartenenti a gruppi sono più produttive di quelle indipendenti

I costi del personale aumentano del 5,5% per le imprese appartenenti a gruppi e del 2,2% per le imprese indipendenti. Il 19,9% dei gruppi di impresa, con almeno un’impresa residente nel territorio nazionale, ha natura multinazionale, e il 10,1% è controllato da un soggetto residente all’estero. I gruppi domestici (80,1%) controllano il 79,8% delle imprese appartenenti a gruppi e assorbono il 41,4% degli addetti. Le imprese appartenenti a gruppi risultano più produttive di quelle indipendenti: il valore aggiunto per addetto ammonta a 77 mila 350 euro ed è 1,5 volte maggiore di quello delle imprese nel complesso (47 mila 150 euro).

Il 5% delle imprese è organizzato in strutture di gruppo

Le imprese attive nell’industria e nei servizi di mercato sono 4,4 milioni e occupano 16,5 milioni di addetti, di cui 11,7 milioni dipendenti. La dimensione media è di 3,8 addetti. Il 5% delle imprese è organizzato in strutture di gruppo che occupano circa un terzo degli addetti. Sono infatti 219.769 le imprese organizzate in gruppi d’impresa (99.268 gruppi), con 5,7 milioni di addetti, 5,6 milioni di dipendenti e una dimensione media di 26 addetti, che raggiunge i 75,2 addetti nel caso dei gruppi multinazionali.

Formazione, troppo costosa per 1 piccola impresa su 4

Tutti riconoscono il ruolo della formazione aziendale, ma per alcune piccole realtà è eccessivamente costosa, elitaria e troppo complicata da gestire all’interno delle microimprese. A dirlo è l’indagine dell’Osservatorio Statistico Consulenti del Lavoro in collaborazione con FonARCom, Fondo Paritetico Interprofessionale Nazionale per la Formazione Continua.

Le piccole imprese sono il 93,3% delle aziende italiane

Pur riconoscendo il ruolo e il valore della formazione per restare competitivi sul mercato, questa è difficile per gran parte delle microimprese. Realtà produttive piccole e piccolissime che rappresentano il 93,3% delle aziende italiane, pari ad oltre 1 milione e mezzo di realtà, e che occupano 5,1 milioni di addetti (il 36,1% del totale dei dipendenti del settore privato extra agricolo).  In base ai risultati dell’indagine, emerge che l’attività formativa in Italia è essenzialmente di tipo “obbligatorio”, come quella su sicurezza sul lavoro e ambiente, e riguarda principalmente i giovani da poco entrati nel mondo del lavoro (il 65,5% dei partecipanti a iniziative di formazione ha meno di 34 anni, gli ultracinquantenni sono appena il 10,9%). L’attività formativa non obbligatoria, invece, interessa soprattutto i dirigenti e i quadri aziendali (64,6%), fra cui rientrano maggiormente i lavoratori anziani. Ne consegue che i giovani sono sostanzialmente esclusi dalla formazione non obbligatoria, poiché nella gran parte dei casi non ricoprono ruoli di management. Un altro dato messo in luce dalla ricerca è che “la propensione a svolgere corsi formativi aumenta al crescere delle dimensioni dell’impresa: in un’azienda con più di 50 dipendenti è oltre 6 volte maggiore (81,3%) rispetto ad un’impresa con meno di 10 dipendenti (13,4%)”.

I principali ostacoli

Il rapporto spiega che, sulle risposte ottenute dal questionario, siano emerse diverse difficoltà. In particolare, i maggiori blocchi alla volontà di fare formazione sono di carattere economico e procedurali: gli imprenditori titolari di micro e piccolissime imprese non sono affatto convinti dell’utilità della formazione, le poche esperienze avute non sono state particolarmente “esaltanti”, la formazione non viene vista come un investimento, ma come un costo e gli sforzi economici vengono indirizzati più sul binomio produzione/vendita.

Più formazione se fosse meno costosa

Con questi presupposti, non stupisce che il il 78,6% degli intervistati farebbe più formazione se costasse meno farla, se non fosse scollegata dalle reali esigenze produttive dell’azienda (74,1%) e, ancora, se vi fossero più finanziamenti mirati (69,6%). Fra le imprese che fanno formazione, invece, prevale l’approccio pratico al training on the job (28,3%), la formazione sul campo e le attività sono realizzate essenzialmente ricorrendo a fondi interprofessionali (45,2%) o a società private di consulenza (42,1%). L’impresa che destina risorse ad un fondo paritetico interprofessionale, infatti, ha la garanzia che il suo investimento possa tornare utile alla qualificazione professionale dei propri dipendenti, ottenendo un costante miglioramento della loro competenza e preparazione.

Il ruolo dei Consulenti del Lavoro

“Dall’indagine emerge l’esigenza di proseguire nell’importante percorso di diffusione della cultura della formazione continua, soprattutto nelle piccole e medie imprese” dice Andrea Cafà, Presidente di FonARCom.“Mai come oggi, ciò appare indispensabile in ragione dei grandi cambiamenti determinati dall’innovazione tecnologica e dall’introduzione di nuovi modelli organizzativi aziendali. La formazione intesa, quindi, come valore qualitativo per accrescere le competenze dei lavoratori e la competitività delle aziende. In quest’ottica è auspicabile una stretta e concreta sinergia anche con il mondo delle professioni, affinché supportino tale processo all’interno delle imprese, nell’ambito di un moderno modello di relazioni industriali, capace di rispondere in modo efficace alle grandi trasformazioni del mondo del lavoro”.