Anche la moneta virtuale consuma energia elettrica. Quanta? A oggi 2,55 gigawatt a livello mondiale, ma alla fine del 2018 potrebbe consumarne 7,67 gigawatt, ovvero circa lo 0,5% del consumo elettrico globale. Quasi quanto quello di uno Stato come l’Austria, e in alcune giornate di picchi produttivi, la percentuale potrebbe salire al 5%. Questo è quanto risulta da un’analisi di Alex de Vries, economista ed esperto di blockchain, il processo di creazione di criptovaluta.

La creazione di bitcoin richiede calcoli complessi, e per completarli non bastano più dispositivi casalinghi, ma vere e proprie fabbriche che aggregano capacità di elaborazione. Ma queste richiedono grandi quantità di elettricità, sia per consentire alle macchine di funzionare sia per alimentare i potenti impianti di raffreddamento necessari a tenere bassa la temperatura degli ambienti e dei dispositivi.

Estrarre bitcoin potrebbe diventare sempre meno conveniente

Il problema non è solo ambientale. La prospettiva di de Vries è soprattutto economica: se il consumo energetico si moltiplicherà in così poco tempo cresceranno con altrettanta velocità anche le spese di chi estrae bitcoin, assottigliando così i margini dell’attività. In altre parole, estrarre criptomoneta potrebbe diventare sempre meno conveniente.

L’analisi dell’economista però non è una condanna, perché la profittabilità dipenderà dal prezzo futuro di un bitcoin, Se questo aumenterà a un ritmo superiore alle spese, il mining continuerà a produrre guadagni.

In Italia produrre un bitcoin costa 10.310 dollari

Ci sono poi differenze da Stato a Stato, poiché ogni Paese ha un costo dell’energia (e quindi dei processi) differente. Diverse analisi hanno provato a capire quali siano gli Stati più convenienti. In Italia, estrarre un bitcoin costerebbe 10.310 dollari, già molto più del valore attuale della criptovaluta (8300 dollari). In Germania, il costo è ancora superiore (oltre i 14.000 dollari), in Francia è poco sotto gli 8.000 dollari, e la produzione rende di più. Ma gli affari migliori si farebbero in Cina, Serbia, Bulgaria, Bielorussia, Georgia, Trinidad e Tobago, Zambia. Anche se il Paese più conveniente risulta il Venezuela, dove il costo di produzione di un bitcoin sarebbe di appena 531 dollari.

Il rischio cryptojacking

De Vries sottolinea come nei prossimi mesi il sistema bitcoin potrebbe adottare soluzioni capaci di risparmiare energia, come Lightning Network, il protocollo che punta a semplificare le transazioni, riporta Agi. Ma se la spesa energetica dovesse superare i ricavi potrebbero moltiplicarsi i furti, ovvero gli attacchi informatici che succhiano elettricità e capacità di calcolo dai dispositivi di utenti e grandi organizzazioni per aggregarla e produrre criptomonete.

Si tratta di un’ipotesi avvalorata da una recente analisi di F-Secure. Secondo i produttori di antivirus, i cybercriminali hanno preferito virare verso il cryptojacking, software malevoli che violano pc e smartphone al fine di sfruttarli nell’attività di mining. In pratica i cybercriminali ci guadagnano, tanto non sono loro a pagare le bollette.